martedì 19 marzo 2013

IMU: TRA COSTITUZIONE E CRISI DEL DEBITO PUBBLICO

Salvare il feticcio tedesco dell'Euro, schiacciando i diritti costituzionali non è la via giusta 
Il parlamento elimini l'Imu prima di Giugno dalla prima casa e renda progressiva quella sugli altri immobili. L'Imu è tassa che puzza d'incostituzionalità.

Eccone i motivi, a mio parere. 


L’IMU E’ INCOSTITUZIONALE?

Questa breve composizione, nasce con l’umile scopo di analizzare senza pretesa di esaustività i profili di maggiore criticità costituzionale riguardanti l’IMU. Le argomentazioni e le riflessioni seguenti traggono spunto da un’opera -dalla quale ho estrapolato diversi passaggi-, che dovrebbe essere data in dotazione ad ogni politico travestito da professore e ad ogni tecnico inviato dall’UE ( per conto della BCE) per smontare lo stato sociale in soccorso alla finanza che rischia, specula e perde, vale a dire “I limiti costituzionali quantitativi dell’imposizione fiscale” di Giuseppe Bergonzini(ed. Jovene 2011).http://www.jovene.it/schedaLibro.aspx?idLibro=38471&sezione=autori&lettera=B&valoreComboSezione=-1&pag=7&testo=&isbn=&novita=&idRivista
Il governo Monti, come tutti sappiamo, ha anticipato l’introduzione dell’IMU a partire dal 2012 anziché dal 2014 come originariamente previsto, apportando consistenti modifiche rispetto a quanto disposto dall’ articolo 12, comma I, lett. b) della legge delega al Governo n.42/2009 in materia di federalismo fiscale, -in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione- il quale prescriveva come criterio direttivo per i decreti di attuazione del federalismo fiscale, la “definizione delle modalità secondo cui le spese dei comuni relative alle funzioni fondamentali … sono prioritariamente finanziate da una o più delle seguenti fonti: …  dalla imposizione immobiliare, con esclusione della tassazione patrimoniale sull’unità immobiliare adibitaad abitazione principale del soggetto passivo”. Criterio  poi attuato tramite art. 8 d.lgs. n. 23/2011 (“Federalismo fiscale municipale”) che istituì, a decorrere dal 2014 , l’imposta municipale propria che aveva come presupposto il possesso di  immobili diversi dall’abitazione principale. Come scrive la Prof.ssa Livia Salvini sul sito  http://www.uckmar.net/circolari/altro/salvini.pdf: <<Il “decreto Monti” non ha solo anticipato “in via sperimentale” dal 2012 l’IMU, ma ha impresso una notevole modificazione all’impianto preesistente, appena  creato, dell’intera imposizione municipale. Prescindendo qui dalle notevoli problematiche applicative ed interpretative del nuovo tributo, che denotano la fretta ed una certa approssimazione del suo varo, per attenersi al tema di questo intervento, le principali modifiche attengono: in primo luogo, all’assoggettamento all’imposta della “prima casa”; in secondo luogo,  alla riserva, a favore dello Stato e con versamento diretto ad esso, della “quota di imposta pari alla metà dell'importo calcolato applicando alla base imponibile di tutti gli immobili, ad  eccezione dell'abitazione principale e delle relative pertinenze …, nonché dei fabbricati rurali ad uso strumentale …., l'aliquota di base … Le detrazioni previste dal presente articolo, nonché le detrazioni e le riduzioni di aliquota deliberate dai comuni non si applicano alla quota di imposta riservata  allo Stato di cui al periodo precedente”. È ben possibile, dato il contesto in cui il provvedimento è maturato, che queste due misure siano soprattutto ispirate  ad esigenze di risanamento dei conti pubblici. Specialmente la riserva allo Stato di una quota del tributo locale pare mirata non solo a far “riappropriare” l’erario del gettito dell’IRPEF sui redditi fondiari dei beni non locati, assorbita nell’IMU, ma ad incrementare notevolmente le entrate rispetto alla situazione preesistente.>>. Come ha potuto il Governo Monti introdurre l’IMU sulla “prima casa” in violazione dei principi contenuti nella legge delega sul federalismo, la quale esplicitamente impediva tale scelta all’ esecutivo, senza incappare in una illegittimità costituzionale per eccesso di delega?  La risposta la dà la stessa Prof.ssa Salvini: <<Trattandosi di un’autonoma iniziativa legislativa e non di un decreto di attuazione della legge di delega n. 42/2009, è stato possibile superare il divieto posto da quest’ultima dell’introduzione di un tributo analogo all’ICI sulla “prima casa”>>. Veniamo dunque al primo aspetto controverso.

IL RAPPORTO TRA IL D.L n. 201/2011
E L’ART. 4 DELLO LO STATUTO DEI DIRITTI DEL CONTRIBUENTE

L’IMU è stata introdotta con il D.L. “ Salva Italia” , poi convertito  dalla legge n. 214 del 22 dicembre 2011. L’art. 4 dello Statuto dei diritti del contribuente recita: “non si può disporre con decreto-legge l'istituzione di nuovi tributi né prevedere l'applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti.”. Il d.l. ha invece introdotto un tributo considerabile “ nuovo”, perché diverso da quello ad esso più prossimo, vale a dire l’ICI e diverso da quello previsto nel D.lgs. sul federalismo fiscale municipale. Se  viceversa, lo si volesse considerare “esistente”, non si potrebbe negare che il d.l. ne abbia esteso l’applicazione “ ad altre categorie di soggetti”, vale a dire i possessori a vario titolo “di prima casa”  originariamente esclusi. Quale valore ha questo contrasto? Per rispondere al quesito, bisogna prima cercare di comprendere quale valore normativo abbia lo Statuto. A tal fine accorre in nostro aiuto quanto scritto dal Prof. Gianni Marongiu su http://www.corsomagistratitributari.unimi.it/STRUTTURA/DOTTRINA%20E%20RELAZIONI/DIRITTI%20DEL%20CONTRIBUENTE%20(Statuto)/Approfondimenti/02_Marongiu/A-02%20Marongiu%20corr.pdf: <<[…] Lo Statuto, nelle sue prime norme, è, quindi, volto a garantire una disciplina tributaria scritta per principi, stabile nel tempo, affidabile e trasparente e perciò idonea ad agevolare, nella interpretazione, sia il contribuente che l’amministrazione finanziaria (anch’essa ha ripetutamente e giustamente documentato difficoltà nell’intendere e nel gestire un ordinamento“torrentizio”) e a diminuire gli alibi del primo nel tentare e realizzare comportamenti “evasivi”. Se ne trova una prima conferma nei precetti contenuti nei quattro commi dell’art. 2 ma, senza nulla togliere ad essi, è di tutta evidenza la diversa valenza di quelli ulteriori contenuti negli artt. 1, 3 e 4 dello Statuto per i quali “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”, “l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta solo in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica” e, ancora, “non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi”. Sembra di leggere in trasparenza la contro storia degli ultimi vent’anni poiché ognuno sa bene quanti tributi, anche non occasionali, sono stati istituiti per decreto-legge e quante leggi interpretative sono state emanate per imporre, con efficacia retroattiva, soluzioni favorevoli alla parte pubblica ancorché rigettate e proprio perché rigettate, dalla più autorevole giurisprudenza e quindi in assenza di un qualificato contrasto interpretativo. È per altro riduttivo intendere i precetti dello Statuto come una sorta di manifesto di buone intenzioni, come si è opportunamente precisato volto a condannare in astratto i comportamenti non esemplari del legislatore, ma inidoneo a ostacolarli in concreto. Esso ha dato, invece, impulso al dibattito sul ruolo dei principi generali che non sembrava né vivo né vivace se tutti lamentavano il piegarsi della dottrina sull’esegesi di una raffica di normicole transeunti e caduche. L’art. 1 dello Statuto dispone, infatti, al suo primo comma che “le disposizioni della presente legge, in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali” Ebbene la Corte di Cassazione, in apprezzatissime sentenze, smentendo i pavidi e i conformisti (per la replica ad alcune prime letture scettiche dello Statuto rinvio alla mia noterella apparsa in Corr. trib., 2001, 2069 sg.) enucleati, dall’art. 1, primo comma, quattro enunciati - a) l’autoqualificazione delle disposizioni dello Statuto come attuative della Costituzione; b) il valore di tali norme, come principi generali dell’ordinamento tributario; c) il divieto di deroga o modifica delle norme, in modo tacito; d) il divieto di deroga o modifica mediante leggi speciali - ha soggiunto: “Quale che possa essere l’incidenza dei quattro enunciati normativi contenuti nel primo comma dell’art. 1 della legge n. 212 del 2000….. è certo, però, che alle specifiche clausole rafforzative di autoqualificazione delle disposizioni stesse come attuative delle norme costituzionali richiamate e come principi generali dell’ordinamento tributario deve essere attribuito un preciso valore normativo”. E poiché “… il tratto comune ai quattro distinti significati della locuzione “principi generali dell’ordinamento tributario” è costituito, quanto meno, dalla superiorità assiologica dei principi espressi o desumibili dalle disposizioni dello Statuto e, quindi, dalla loro funzione di orientamento ermeneutico, vincolante per l’interprete”….. “il dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria che attenga ad ambiti materiali disciplinati dalla legge n. 212/2000 deve essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai principi statutari” (così Cass. sez.trib., 12 febbraio 2003, n. 17576, in  Riv.dir.fin., 2003, ii, 37 sg. e anche Cass., sez. trib., 30 marzo 2001, n. 4760; si veda anche, per un identico ordine argomentativo con riguardo ai vincoli posti dalla legge n. 142/1990, Corte cost. 9 aprile 1997, n, 111).Fondamentale è dunque il ruolo dello Statuto nell’interpretazione delle disposizioni tributarie di rango legislativo così come il Supremo, con la sentenza ora citata (Cass. n. 17576), mostra di condividere l’impostazione secondo la quale “lo Statuto contiene disposizioni volte a orientare in senso garantistico tutta la prospettiva costituzionale del diritto tributario, per cui, dopo questa sentenza, il collegamento tra diritto tributario e diritto costituzionale appare più stretto e la Costituzione appare più vicina” [g.  falcone (iv.4)].Si comprende così perché, in una concreta fattispecie (ed è solo un esempio: si controverteva sulla decorrenza degli interessi liquidabili su crediti di imposta) la Corte di Cassazione abbia statuito che “se si commette l’errore di identificare il legislatore con il Ministero delle finanze, allora la norma in esame può anche essere intesa nel senso che abbia voluto garantire all’Erario il minore esborso possibile. Ma, se invece, la volontà legislativa deve essere ricostruita in ragione dei canoni costituzionali di razionalità, uguaglianza, imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione (ai quali si richiama anche il recente Statuto del contribuente, art. 1, 1° comma, della L. 27 luglio 2000, n. 212), la norma deve essere esaminata non soltanto nell’ottica degli interessi erariali, ma anche in quella degli interessi del contribuente.  anche quando, come nella specie, si tratti di leggi in senso sostanziale emanate dal Governo su delega parlamentare. Anzi, proprio quando si tratti di “leggi di parte”, la lettura costituzionale deve essere più penetrante” (così Cass., sez. trib., 30 marzo 2001, n. 4760)[…]>>. E’opportuno però riportare anche quanto scritto dal Prof. Michele Rossi su http://www.innovazionediritto.unina.it/archivionumeri/speciale10/rossi.pdf: <<Le norme dello Statuto non sono aggiuntive rispetto ai principi fondamentali già esistenti: lo ha ricordato la Corte di Cassazione quando, valorizzando lo Statuto, ha detto che non ci sarebbe bisogno di esplicitazione normativa dei principi già esistenti nell'ordinamento che toccano la materia tributaria. Ma lo Statuto del contribuente non è una legge costituzionale; è solo una legge ordinaria e non ha nessuna forza particolare nella gerarchia delle fonti, come chiaramente si era ritenuto definendo lo Statuto, con una qualificazione impropria, una legge «rinforzata». E una legge ordinaria può sempre essere superata da altre leggi ordinarie. Tuttavia la Stessa Corte di Cassazione qualche anno dopo prende in considerazione, in un caso di istanza di rimborso presentata ad ufficio incompetente, i principi dello Statuto  sancendo e valorizzando i principi della collaborazione fra contribuente e amministrazione secondo buona fede (articoli 5, 6, 10, 12). In realtà l’evoluzione giurisprudenziale ha portato un certo filone interpretativo a valutare le norme dello Statuto come di diretta promanazione della costituzione. Infatti, secondo la sentenza della Corte di Cassazione. civ. Sez. V del  06 maggio 2005, n. 9407 il giudice, in sede di interpretazione e applicazione delle leggi tributarie, deve fare riferimento allo Statuto dei diritti del contribuente e risolvere eventuali dubbi ermeneutici nel senso conforme a esso.  In particolare, le disposizioni dello Statuto sono state emanate in attuazione degli artt. 3, 23, 53, 97 della Costituzione ed in quanto tali sono principi generali dell'ordinamento tributario. Con la  sentenza n. 9407 del 2005, la Corte di Cassazione ha così confermato l'indirizzo avviato con la precedente decisione n. 7080 del 2004, nella quale aveva affermato che "i criteri generali introdotti dallo Statuto, e attraverso di esso i valori costituzionali in senso ampio, sono stati interpretati direttamente dallo stesso legislatore>>.

L’URGENZA DI DARE CONTO
AGLI SPECUTALORI FINANZIARI INTERNAZIONALI

Scrive il prof. Gianni Morungio: <<Alla luce di queste prime osservazioni appare inequivocabile l’intento del legislatore dello Statuto di dettare alcune regole che valgano a garantire anche la
stabilità e la ponderatezza della legislazione fiscale. Intento encomiabile- ripeto- che ha trovato la sua genesi non solo e non tanto nella frequenza degli interventi legislativi, non solo nella loro sovrapposizione ma anche e soprattutto per l’abuso del decreto-legge .Ciò spiega il disposto del citato art. 4 (che l’ex primo presidente della Corte di Cassazione Vincenzo Carbone considera interpretazione autentica dell’articolo 23 della Costituzione nda) che, recuperando la volontà dei “padri costituenti” per anni tradita e mortificata,statuisce che “non si può disporre con decreto legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti”. Orbene non intendo ripercorrere tutte le osservazioni che altrove ho svolto sulla fisiologica utilizzazione del decreto-legge, sul controllo della Corte costituzionale sull’esistenza dei requisiti previsti dall’art. 77 Costituzione e come, pur nel loro rispetto, non si mortifichino le possibilità di scelta del legislatore che può aumentare o diminuire aliquote di tributi esistenti e quindi operare scelte di politica economica che, però, non incidono sulla struttura dell’ordinamento tributario esistente.Intendo, però, sottolineare che il precetto contenuto nello Statuto si apprezza proprio alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale per cui “il sindacato sull’esistenza e sull’adeguatezza dei presupposti della necessità e dell’urgenza che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge, può essere esercitato – a prescindere dai problemi relativi all’identificazione dei suoi limiti – solo in caso di “evidente mancanza” dei requisiti stessi” (così, all’interno di una giurisprudenza non sempre univoca, Corte cost. 27 gennaio 1995, n. 29 e id. 6 febbraio 2002, n. 16).Evidenti sono allora le conseguenze in ordine alla possibile deroga dell’art. 4 dello Statuto. Se ex art. 77 Cost. particolare deve essere la necessità, se straordinario deve essere il caso, se impellente deve essere l’esigenza, con specifico riguardo alla materia tributaria il decreto legge non potrà mai essere utilizzato, in linea di principio, per istituire un tributo destinato a durare, un tributo che connoti, per usare il linguaggio della tradizione, la fiscalità ordinaria. Ciò non significa, essendo lo Statuto derogabile, che il legislatore nello specifico, non possa ricorrere anche al decreto-legge, ma a condizione che esso sia reso necessario dalla riscontrata e comprovata ricorrenza di una situazione eccezionale che consenta di derogare al principio generale contenuto nell’art. 4 dello Statuto. In altre parole un qualsiasi decreto-legge può essere dichiarato incostituzionale nel caso di“evidente mancanza” dei requisiti costituzionali che lo legittimano; un decreto-legge istitutivo di un tributo va dichiarato incostituzionale ove la Corte non accerti l’esistenza di una specifica, eccezionale ragione che, nel concreto, lo giustifichi. Ovviamente, nessuno può dubitare della legittimità di un decreto che comporti aumenti di aliquote di tributi esistenti dato che , impellente può essere la necessità di incrementare il gettito, ma proprio questa pacifica conclusione pone un serio e ulteriore interrogativo quando lo stesso scopo (l’aumento di gettito) è raggiunto indirettamente mutando in peggio la disciplina esistente di un tributo, di un istituto. Il che significa chiedersi se la comprovata necessità di un maggior gettito  giustifichi qualsiasi norma contenuta in un decreto-legge o se il nuovo precetto contenuto in ciascuna di esse debba essere giustificato da una particolare necessità e da una specifica esigenza>>.
 Prescindendo dal fatto che il d.l “Salva Italia” ha introdotto un nuovo tributo, quale sarebbero la straordinarietà e l’urgenza tali da giustificare l’uso del d.l per l’introduzione dell’IMU?. Le dimensioni del nostro debito pubblico nel 2011 non erano frutto di condizioni o eventi straordinari, erano ( e sono) frutto di un disastro  la cui gestione ( peggiorativa anche in relazione all’efficienza e all’efficacia della spesa pubblica) va avanti in maniera ordinaria dagli anni ’80. E’ corretto considerare straordinaria la necessità di nuove entrate fiscali, volutamente indotta da una situazione finanziaria generata dagli speculatori finanziari e che è replicabile in qualsiasi momento e per periodi protratti? Dal 1/01/2011 al 30/12/2011 lo spread  tra il nostri BTP decennali ed i  Bund tedeschi è aumentato complessivamente di 355 punti. Chi stabilisce l’ordinarietà o la straordinarietà di un  livello speculativo ( e del relativo bisogno di nuove entrate)  alla luce della struttura dei mercati finanziari che vivono ( anche)  di speculazione ( a breve termine) ed i cui livelli registrati  il 9/11/2011 sono replicabili in qualunque momento, come dimostra lo spread registrato il 20/07/2012?  E se è vero ciò che dice la Banca d’Italia, vale a dire che il livello giusto di spread per l’Italia sarebbe di 200pb, tutti i livelli ad esso superiori dovrebbero far concludere per in giudizio di straordinarietà ( rilevante anche a livello costituzionale) della situazione finanziaria riguardante il nostro Paese? Ma soprattutto, è possibile considerare urgente la predisposizione di una nuova tassa il cui gettito si sarebbe avuto parzialmente a Giugno e globalmente a Dicembre 2012, ossia rispettivamente 6 e 12 mesi dopo l’introduzione dell’imposta tramite decreto legge? Qualora invece si volesse continuare a negare qualsiasi valore allo Statuto dei Contribuenti, si dovrebbe avere almeno il coraggio di dichiararlo incostituzionale in quanto pretende di modificare il regime costituzionale delle fonti.

L’IMU E LA CAPACITA’ CONTRIBUTIVA EX ART. 53 DELLA COSTITUZIONE

Nel d.l.” Salva Italia” e nella relativa legge di conversione, non esiste alcun riferimento alla capacità contributiva del soggetto passivo d’imposta, il che vuol dire che qualunque sia l’ammontare del suo reddito (fosse anche pari a €0,00)  è tenuto a pagarla nella stessa misura (a parità di condizioni del  presupposto d’imposta) di chi magari ha un reddito annuo pari ad 1 milione di euro. L’imposta si calcola  (tralasciando la disciplina di dettaglio) per fabbricati e terreni sulla base delle rendite catastali e del reddito dominicale. Come tutti sanno,  dato il carattere catastale dei redditi fondiari, la tassazione prescinde dal reddito monetario o percepito: vi è tassazione anche se un fabbricato non è abitato o locato, o se un terreno non è coltivato ed anche se il reddito globale del possessore dell’immobile risulti essere pari a €0,00. Si pensi ad un soggetto che ha acquistato (o ereditato) una casa (o anche due) quando lavorava, aveva un reddito e magari aveva acceso un mutuo riuscendo ad estinguerlo. Oggi magari ha perso il lavoro ed ha esaurito le possibilità di accesso agli ammortizzatori sociali. Verosimilmente il soggetto in questione godrà ( sin quando possibile) dei suoi risparmi spesso in combinazione con  aiuti resi nell'ambito familiare ( genitori, fratelli, parenti ecc.). Per il fisco ( fino a prova contraria) ha un reddito da lavoro pari a € 0,00 ed un reddito complessivo effettivo dello stesso importo.
Non ha quindi reddito da spendere per le esigenze primarie né ovviamente per adempiere a qualsivoglia obbligazione tributaria. Immaginiamo che una delle case sia una prima abitazione e l'altra una seconda casa impiegata per trascorrere le vacanze ( e non concessa in locazione durante l'anno).
Non pagando l'Imu (né sulla prima né sulla seconda casa non avendo risorse proprie) arriverà l'accertamento da parte dell'ufficio tributi. Il soggetto continuerà a non pagare, inizieranno le procedure esecutive ed espropriative. In questa condizione (oggi diffusissima) non solo la norma viola il principio di progressività, ma anche quello della tutela della proprietà privata. Lo Stato, non solo non garantisce assolutamente la sopravvivenza, delegando l'assistenza sociale (ma in questo caso sarebbe meglio dire umanitaria) ai nuclei familiari variamente composti, ma impone (per il tramite dei Comuni) al contribuente, di destinare una quota del reddito pari a €0,00,  al pagamento dell'imposta. In tal senso l'imposizione è illogica ed arbitraria. Se non è tale, perché in futuro  non si impone a chi non acquista certi beni e/o servizi il pagamento dell' Iva, calcolata sul consumo medio pro capite di un certo paniere di beni e servizi, in nome dell'urgenza e del debito pubblico? 
Lo stesso discorso si potrebbe fare ovviamente, laddove una seconda abitazione o un magazzino sia oggetto di proprietà non per effetto di acquisto ma per effetto di successione ereditaria. Se lo Stato conosce l'incapacità contributiva effettiva (per assenza di reddito spendibile) di un contribuente e lo costringe ugualmente a cedere l'immobile o peggio ancora lo espropria, si comporta in modo non difforme da un estorsore

COSA DICE LA COSTITUZIONE?

Aritcolo 53. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

A partire da quale soglia esiste tale obbligo di contribuzione? Uno spunto di riflessione illuminante, ci è fornito dall’opera del Bergonzini “I limiti costituzionali quantitativi dell’imposizione fiscale” di  (ed. Jovene 2011) << In via di prima approssimazione al tema, si può ragionevolmente affermare che esiste un limite minimo all'imposizione quando l'ordinamento giuridico riconosce a ciascun individuo un certo quantum di ricchezza individuale non assoggettabile a prelievo tributario. La
richiesta di partecipare alle spese pubbliche, che lo Stato avanza nei confronti di ogni potenziale contribuente, si arresta di fronte ad uno “spazio minimo di libertà fiscale” invalicabile.
L'idea, il principio che sottostà al riconoscimento di questa ricchezza intangibile è di facile ed immediata comprensione: non si può chiedere di partecipare alle spese pubbliche ad un soggetto che non dispone almeno di quanto è necessario per badare ai propri bisogni. La tutela del “minimo vitale”, garantita da una corrispondente limitazione quantitativa del prelievo fiscale, non può che apparire condivisibile, anche ad un primo superficiale esame: risponde infatti ad elementari esigenze di equità – fiscale, innanzitutto, ma non solo – che nessun sistema tributario dovrebbe ignorare. […]L'esistenza di uno spazio minimo di ricchezza non prelevabile a titolo d'imposta pare indissolubilmente legata ad una certa concezione della capacità contributiva, che si è affermata in Italia sin dall'assemblea costituente: una delle ragioni principali dell'inserimento del principio di capacità contributiva nella Costituzione italiana sembra, infatti, proprio riconducibile all'esigenza di dare garanzia costituzionale al “minimo vitale”. L'idea, largamente condivisa, che il principio di capacità contributiva contenga già in sé un limite minimo all'imposizione è strettamente connessa alla concezione che pone alla base del dovere di partecipare alle pubbliche spese la capacità economica del contribuente. […]Perché possa ritenersi operante il dovere di solidarietà, è però necessario che il contribuente sia abbastanza “capace” da essere in grado di provvedere a se stesso. “Se capacità contributiva (...) non significa mera assoggettabilità all'imposizione, ma attitudine alla contribuzione, cioè disponibilità dei mezzi economici necessari per far fronte al prelievo, non può considerarsi contributivamente capace chi abbia mezzi appena sufficienti o addirittura insufficienti all'esistenza” . Non sarebbe ragionevole, in effetti, pretendere che un soggetto economicamente debole sacrificasse anche solo una parte del poco di cui dispone per il bene della collettività. Dovrebbe, al contrario, essere la collettività a sacrificarsi per lui: “il possesso di un reddito non superiore a quanto è strettamente necessario per l'esistenza, o il consumo di un bene di prima necessità, invece che dimostrare capacità contributiva, manifesta uno stato di bisogno” . Chi dispone di un reddito appena sufficiente per vivere non può dunque essere soggetto passivo dell'obbligo di contribuzione: primum vivere, deinde contribuere. Si perverrebbe, in caso contrario, ad una conclusione assurda: lo Stato che pretendesse di percepire imposte anche dai redditi minimi sarebbe poi tenuto a restituirle agli stessi “contribuenti”, sotto forma di sovvenzioni di vario tipo, in attuazione delle finalità solidaristiche dell'ordinamento. Lo Stato dovrebbe, cioè, chiedere a tutti, anche a chi guadagna quanto è appena sufficiente per vivere, per poi dare a coloro che si trovano in condizione di bisogno. Un'ipotesi di questo tipo potrebbe forse avere senso solo all'interno di un ordinamento a carattere marcatamente paternalistico, che pretendesse di occuparsi di ogni aspetto della vita dei consociati […]L'esenzione da imposta di un certo quantum minimo di ricchezza risponde dunque ad una esigenza elementare di “ragionevole solidarietà” propria dell'attuale Stato di diritto, che evidenzia come non tutti i fatti espressivi di forza economica possano essere considerati manifestazioni di capacità contributiva. Quest'ultima non si desume, infatti, da qualunque espressione di ricchezza – anche minima – e di capacità economica, ma solo da quella che eccede una determinata quantità, indispensabile per la vita stessa dell'individuo: il contribuente diviene tale solo a partire da una certa capacità economica, e non prima. Ne consegue che non tutta la capacità economica, “per quanto elevata sia, potrà essere assunta a capacità contributiva, ma solo quella parte che residui, ed in quanto residui, alla detrazione del minimo vitale” […]. Chi ha un reddito così basso da non essere suscettibile di ulteriore riduzione,essendo assorbito per intero dai bisogni urgenti, ha una capacità contributiva nulla; ed è logico quindi che a questo soggetto nulla si chieda a titolo d'imposta”. L'art. 53 Cost., letto anche alla luce dell'art. 2, costituisce dunque il primo fondamento costituzionale del limite minimo dell'imposizione fiscale: il dovere di contribuire alle spese pubbliche, inteso come dovere di solidarietà sociale ed economica, impone di lasciare esente da tributo chi è appena in grado di badare a se stesso. Anche se l'esistenza del limite minimo all'imposizione può essere desunto in via interpretativa dalla Costituzione, come evidenziato da dottrina pressoché unanime, il concreto operare di tale limite nella società civile, la sua effettività, dipende dal modo in cui viene esercitato il controllo di costituzionalità sulle leggi vigenti: non si può parlare di un limite costituzionale se esso non è utilizzato – o perlomeno utilizzabile in futuro – per sindacare la legittimità delle leggi.>> In definitiva, il limite esiste ma la Corte Costituzionale sembra non prenderne atto concretamente, in quanto scrive Bergonzini <<[…] la misura del prelievo fiscale definita dal legislatore non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità costituzionale, a meno che essa non sia assolutamente arbitraria ed irragionevole; tale arbitrarietà ed irragionevolezza è ravvisabile solo nei casi – rarissimi – di palese ed ingiustificata violazione della capacità contributiva o del principio di uguaglianza[…]. >>Alla luce di quanto sopra, può considerarsi arbitraria l’imposizione dell’Imu a chi ha un reddito pari a zero e vive quindi in una condizione di  povertà assoluta? Può considerarsi rispettato il principio di eguaglianza nel momento in cui si impone lo stesso tributo, a soggetti proprietari dello stesso tipo d’immobile, con stesse caratteristiche e stessa rendita ma titolari rispettivamente un reddito annuo pari ad €100.000,00 ed un reddito pari a €0,00 e quindi di risorse utili per far fronte all’obbligazione tributaria totalmente differenti?
E’ corretto continuare ad ignorare questi basilari principi di equità e convivenza civile, pur di drenare risorse a tutto campo da portare sul vassoio agli speculatori, che comprano titoli di stati  falliti e poi chiedono all’Europa di imporre agli stessi misure “one size fits all” in spregio dello spirito costituzionale?
Non credo che la Corte Costituzionale dichiarerà incostituzionale l’IMU. Anche perché nella sentenza n. 263 del 1994 la stessa dichiarava testualmente che <<[…]che il patrimonio ben può essere considerato sintomo di capacità contributiva>>,e ancora <<[…] In ordine alla violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, si nega la lesione del principio di uguaglianza, attesa la generale applicazione delle tariffe in questione. Circa la capacità contributiva, si afferma che rientra nella discrezionalità del legislatore assumere determinate situazioni, e non altre, come indicative della capacità contributiva, né ha rilevanza, ai fini della progressività del sistema impositivo, la determinazione della base imponibile dei fabbricati effettuata sulla base delle tariffe d'estimo e delle rendite in questione […]>>,ma in futuro sarà indispensabile rivalutare e rivisitare il concetto di capacità contributiva perché è indegno di uno stato civile pretendere il pagamento di questo tipo d’imposta da chi vive in condizioni di povertà assoluta sotto la minaccia di espropriazione immobiliare. Qualcuno prima o poi dovrà spiegare il processo logico in base al quale, si possa affermare che un soggetto con reddito pari a €0,00 o comunque di poco superiore, che ad esempio erediti un immobile  o che vanti la titolarità di un immobile acquistato anni addietro nel pieno dell’attività lavorativa cessata poi per disoccupazione, sia in grado di esprimere la sua fantomatica capacità contributiva per di più con riferimento ad un bene che se non locato non genera alcun reddito monetario effettivo. Con cosa adempie all’obbligazione tributaria? Paga l’imposta con un pezzetto d’immobile? Il consumo di un bene ( che deve essere pagato) è rappresentazione istantanea di capacità contributiva, seppur limitata all’atto del acquisto, ma un immobile chiuso con un lucchetto, un capannone vuoto, possono al massimo produrre polvere non reddito. Se loco una seconda casa,  sul canone riscosso ( reddito effettivo)  pago la cedolare secca o l’Irpef. Perché dovrei pagare anche l’IMU? Quanti redditi produce questa casa? Perché pagare imposte su redditi percepiti e contemporaneamente su redditi riportati su di un documento del catasto? Se ad un cittadino non solo non si garantisce il minimo vitale ma gli si toglie anche la casa, dove si andrà a finire in nome del rigore fiscale? 

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