lunedì 19 novembre 2018

PUO' UNA BANCA CENTRALE FALLIRE? PT.1

La presente nota, scevra di qualsivoglia pretesa di esaustività, è un mero riordino di appunti sparsi in attesa di approfondimenti futuri. Colgo inoltre l’occasione per consigliarvi di dedicare meno tempo all’ ascolto dei pataccari italiani, specie di quelli leghisti e di studiare maggiormente Willem Buiter (a cui devo totalmente quanto da me appreso in relazione al topic di cui in oggetto), in modo tale da non far vergognare i vostri genitori per i soldi spesi nella vostra educazione scolastica ed universitaria. Infine, invito i giornalisti che leggeranno questa nota al fine di copiarla nei loro articoli di avere l’accortezza di citare non il sottoscritto, il cui umile scopo consiste nel suscitare nel lettore curisoità per argomenti complessi presentati in maniera più leggera, bensì Willem Buiter.
Nel recente dibattito intercorso tra sovranisti ed europeisti, in questo gran teatro del grottesco italiano, è tornata in auge la questione della cancellazione del debito pubblico monetizzato dalla BCE e dell’ eventualità che gli istituti bancari centrali possano dichiarare default. In tal senso, appare dirimente rispondere ai seguenti quesiti:
Quale importanza potrebbe avere una capital loss patita dalla Banca Centrale?
Può una banca centrale divenire insolvente?
Come e da chi una banca centrale dovrebbe essere ricapitalizzata ed in quale misura?
Prima di cercare una valida -almeno si spera- risposta agli interrogativi di cui sopra, bisognerebbe conoscere -almeno in linea di massima- la struttura del bilancio -consolidato per FED e BCE- di una Banca Centrale. Sorpresa: come qualsiasi altro bilancio, anche quello delle predette consta di “Attività” e di “Passività”. Cosa troviamo tra le Passività? Tra le Passività troviamo:
  1. Passività monetarie “M”, ovvero, la base monetaria detta anche “High-Powered Money”.
  2. Passività non monetarie “O”, ovvero, debiti verso il governo, il settore privato interno, il FMI, il resto del mondo. Queste passività possono essere denominate in valuta nazionale o estera.
Cosa troviamo tra le Attività? Tra le Attività troviamo:
  1. I titoli del debito pubblico “D” : in USA Treasury Bills, Bonds, Statali, Provinciali, Municipali ed in EZ, quelli dei singoli stati dell’ area euro.
  2. I titoli di debito privato (che possono essere sia nazionali che esteri) “L”: si pensi ai titoli di grandi società acquistati dalla BCE nell’ ambito del più ampio CSPP e ABSPP.
  3. Le riserve di valuta estera “R”.
Le Passività e le Attività sono Marketed-to- Market, oppure, ove il primo criterio non dovesse essere applicabile, valutate al fair value. La loro somma algebrica equivale al valore finanziario netto, al capitale “W”, della Banca Centrale.
W= D + L + R - M - O
Un primo punto sul quale potremmo concordare è che la leva delle Banche Centrali non rappresenta di per sé una minaccia alla loro solvibilità laddove le passività risultino denominate -in prevalenza- in valuta nazionale e constino di securities non index-linked. Ad esempio, allorquando scoppiò la GFC, la BOE disponeva di irrilevanti riserve in valuta estera in quanto le stesse erano detenute direttamente dal Tesoro ed il suo capitale ammontava a circa 2 miliardi di £. Dal 2007, a causa dei prestiti fatti alla Northern Rock ed alle altre istituzioni finanziarie il bilancio comincio ad espandersi sino a raggiungere-nell’immediatezza degli eventi- i circa 100 miliardi di £: una leva prossima a 50, molto più alta di quella osservabile presso alcuni hedge funds. Quindi, la dimensione del capitale della BOE appariva molto piccola se confrontata al rischio creditizio assunto in qualità di prestatore di ultima istanza e market maker di ultima istanza: l’esposizione totale verso Northern Rock era pari a 25 miliardi di £ a fronte di collaterali rappresentati da prime mortgage assets. Tuttavia, come dicevamo prima, le passività sul bilancio della BOE erano in assoluta maggioranza denominate in £ e quindi la leva massiccia a cui ricorse per contenere il panico conseguente al crack della Northern Rock non costituì minaccia alla sua solvibilità.

Al contrario, nella stessa fase storica, la Banca Centrale Islandese, non solo non deteneva titoli di stato -essendo le operazioni di mercato aperto focalizzate su titoli del settore privato e sul Forex- ma aveva riserve valutarie estere ampie se rapportate al PIL ed inadeguate se rapportate all’ esposizione in valuta estera del settore privato- per lo più creditizio- locale. Tra l’altro, il settore bancario islandese presentava un eccesso di short-term foreign currency liabilities rispetto agli short-term foreing currency assets, circostanza questa che ha fatto crollare tutte le banche indebitate a breve termine in valuta estera e con assets di lungo termine scarsamente liquidi e magari anche sicuri. Quindi, disponendo di scarse riserve valuarie estere, la Banca Centrale Islandese vide limitate le sue possibilità di agire quale prestatore di ultima istanza/market maker di ultima istanza nei confronti di quelle banche le cui poste patrimonali fossero prevalentemente denominate in valuta estera. Detto massiccio mismatch intercorrente tra le scarse riserve valtuarie estere della Banca Centrale e la massiccia esposizione in valuta estera del settore privato in generale e bancario in particolare, fu uno dei motivi del disastro finanziario osservato in Islanda nel corso della GFC oltre a rappresentare un unicum tra i paesi sviluppati.
Da quanto sopra deriva un primo “principio”: la leva delle Banche Centrali non rappresenta di per sé una minaccia alla loro solvibilità laddove le passività risultino denominate -in prevalenza- in valuta nazionale e constino di securities non index-linked.

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