mercoledì 27 febbraio 2013

IL MORAL HAZARD CHE STIAMO PAGANDO

Se c'è una cosa che, unitamente a quelle che abbiamo visto nei posts precedenti, ricorderemo come elemento alla base della crisi finanziaria, a sua volta alla base dell'attuale crisi economica, è il moral hazard. 
L'azzardo o rischio morale, consiste nel assunzione di un comportamento particolarmente spericolato e rischioso, posteriore alla conclusione di un contratto; assunzione che conta sull'incapacità/ impossibilità della controparte di verificare la sussistenza del dolo o della negligenza. 
Nella crisi esplosa a partire dalla fine del 2007, il moral hazard ha avuto la sua espressione tipica, in una adverse selection che potremmo definire voluta. L'azzardo morale delle banche e delle istituzioni finanziarie, è infatti consistito nel porre in essere volutamente operazioni molto rischiose e l'elevato rischio è derivato anche dal fatto di averle realizzate con soggetti  privi (totalmente o parzialmente) di requisiti  patrimoniali e reddituali tali da essere considerati bancabili, affidabili (si pensi ai mutuatari subprime). La scelta della controparte poco affidabile, è stata incentivata dall'illusione globale dell' eliminazione dell'elemento geneticamente proprio di ogni operazione finanziaria: il rischio. Nei mutui subprime il moral hazard è stato quello di concedere (volutamente)  mutui a persone che mai ne avrebbero potuto sostenere il peso negli anni e che prima o poi si sarebbero rivelate insolventi. Le banche, per il tramite dei broker remunerati per ogni mutuo acceso (ed a prescindere da chi fosse finanziariamente il mutuatario) hanno scientemente posto in essere operazioni ad alto coefficiente di rischio, nell'illusione di poterlo eliminare per il tramite della cartolarizzazione e dei derivati su di essa creati. Che si trattasse di mera illusione era chiaro,sin dal 2006/2007, a tutte le persone di buon senso: se il rischio è embedded, impacchettato in uno strumento finanziario, ceduto ad altri operatori di mercato, il rischio è semplicemente trasferito e non eliminato. Ma si era volutamente dimenticato il principio basilare che i meccanismi incrociati  e totali di "assicurazione dal rischio" non ne determinano la scomparsa. 
Unitamente a questa illusione, hanno giocato un ruolo fondamentale la presenza di soggetti "too big too fail"  e la diffusione oceanica di derivati e derivati dei derivati che hanno -per il processo di massificazione che ne ha caratterizzato la diffusione- annullato i benefici derivanti dalla riduzione dei rischi per il tramite della diversificazione degli investimenti garantita dall'integrazione dei mercati. Ovviamente questo aspetto ne nasconde almeno altri due: i criteri contabili IAS, che hanno indirettamente incentivato la ricerca del maggior valore possibile "sul mercato", nel più breve tempo possibile; la centralità dell'indebitamento dei privati nelle economie occidentali nelle quali la crisi è nata. 
Gli IAS hanno portato una migrazione dal criterio di costo a quello del fair value. Il primo garantisce una certa stabilità del Conto Economico e Patrimoniale degli operatori; il secondo spinge il management alla ricerca del maggior valore possibile, all'attuazione di politiche aziendali che magari portano a trascurare nel medio-lungo periodo il problema della sostenibilità del core-business, pur di avere nel breve assets apprezzati dal mercato e con un elevato valore da iscrivere a bilancio. Questo espone però, l'intermediario, agli umori e dunque alla volatilità dei mercati. 
Anche l'aumento dell'indebitamento degli operatori, a fronte di stabili o decrescenti livelli di capitalizzazione ha avuto un ruolo importante nel non riuscire a far fronte alle conseguenti perdite di valore originate dalla crisi. Con innesco ed amplificazione dei meccanismi di contagio. Fenomeno che ha interessato marginalmente le banche italiane, che hanno invece subito le conseguenze della crisi dell'economia reale. 

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